Okt 7, 2013

La statua che respira

Due piccole introduzioni all'omonima mostra a Grancona (VI) il 18/19/20 ottobre 2013.
“La statua che respira” vista da Andrea Veltroni

Conobbi Phoebe Lesch qualche tempo fa. Mi disse che avrebbe voluto bruciare tutte le sue opere e lasciare intatta solo una statua che ancora non aveva un nome preciso. Lei la chiamava un po’ scherzosamente “Belfagor”, pensando al celebre fantasma del Louvre. Mi confrontai subito con quel suo colosso di pietra, arcaico, primitivo e allo stesso tempo fantascientifico, proiettato nel futuro. Io non ho ancora avuto modo di vedere la statua dal vivo, perché si trova a Vicenza, pesa più di 900 chili ed è alta due metri. Ho visto solo parecchie foto e l’ho trovata sublime. Cos’è il sublime? È ciò che supera, oltrepassa il limite. Sub-limen. Sotto, oltre il limite. Quale limite? Quello del bello, dell’ordine, dell’ordinato. Belfagor è il barbarico, il sublime mostruoso e ancestrale. A me sembra un guerriero, un astronauta, una rappresentazione iconoclasta di un Dio senza volto, un totem, un feticcio, forse davvero un fantasma, magari una mummia o un sarcofago… ecco! Un sarcofago. Allora dissi a Phoebe che Belfagor – usando una metafora di Bazin a proposito del cinema – era la “mummia del cambiamento”. Dunque non sarebbe stato necessario bruciare le sue opere, perché Belfagor era il sarcofago nel quale avrebbe rinchiuso tutta la sua meravigliosa arte e l’avrebbe spedita nello spazio. La sua arte fatta di teste modellate in argilla e poi fuse nel bronzo. Tutta proiettata sulla luna. Lei poi mi disse che avrebbe amato vedere la sua statua esposta in riva al mare. Era chiaro che un fantasma poteva stare ovunque.

Quasi per gioco, perché anche Dio gioca, gioca e danza, Phoebe mi mise a disposizione dei filmati: quelli in cui Marco Peotta, il professionista che usando scalpello, raspa, martello pneumatico, motosega e altri utensili, diede vita alla statua. Il tutto partendo dal modello, dall’archetipo di Phoebe. Un’idea. Forse come quelle che Platone contemplava nel suo iperuranio. A-cheiro-poietos. “Non-fatto-da-mano-umana”, eppure tagliato, scolpito, levigato e infine rifinito da Phoebe stessa. La medesima magia e sacralità dell’icona: unire il visibile all’invisibile.

Ecco che presi i materiali sonori contenuti in quei filmati e li passai semplicemente sul mio computer. L’aggressività di un martello pneumatico divenne una danza ipnotica. La violenza di una motosega o il fragore di un martello si trasformarono in sospiri. Mai nulla era monotono. Mai nulla era altro se non “ il respiro della statua”.

Buona parte del materiale sonoro fu trattato secondo procedimenti che non voglio spiegare, come un cuoco non svela certi segreti. Il fantasma ora vive del suo respiro, sul mare (come pensò Phoebe), sulla luna, nello spazio, e sott’acqua. Tutto ciò che sentite è solo l’impatto degli utensili sulla pietra di Vicenza che è stata tolta dal contorno dell’archetipo celeste di Phoebe.

Ho già utilizzato in passato i materiali sonori, per fare vari generi di musica, ma in questo caso è stata la statua a rivolgersi a me con il suo silenzio. Belfagor è un’ombra imponente che respira nel silenzio. Nessun messaggio. Il punto più alto della poesia è freddo e deserto.

Andrea Veltroni

“La statua che respira” vista da Phoebe Lesch

“L’universo riposa sul suo volto“ mi disse un amico, un giorno, mentre stavamo ammirando il monumento funebre a Ilaria del Carretto a Lucca. Solo dopo mi accorsi che non parlava semplicemente dell’espressione di serenità che emanava; gli era sfuggita proprio una bella definizione della scultura.

La scultura dà corpo al vuoto, definendolo; non è lei, è quello che c’è attorno. La scultura è materia che soffia sullo spazio circostante e lo riempie di umanità, e a volte, come per incanto, l’universo viene a adagiarsi su di lei.

Difficile acchiappare il nulla. C’è, ma non c’è; si percepisce, ma non si vede. L’unica è non pensarci troppo: con i paradossi bisogna giocarci d’istinto.

Scegliendo il volto umano - forma tanto ricorrente quanto rischiosa con cui confrontarsi - ho modellato una serie di teste: di morti, di vivi, visioni di noi. Chissà, ho pensato poi, guardandole, se invece di dare un contorno alla materia provo a dare un contorno al nulla? Cambio di prospettiva, un po’ alla maniera di Rachel Whiteread che ha fatto il calco del volume contenuto dalle pareti di una stanza. Il mio nulla però non è calcolabile in metri cubi. Non ha confini. E così inventai “Belfagor” che malgrado la sua pesantezza e staticità vuole essere un sarcofago volante, una testa nell’universo.

Avevo trascorso una settimana a rifinire la statua assieme a Marco Peotta quando incontrai il musicista Andrea Veltroni. Mi fece ascoltare diversi brani suoi. Capii che parlavamo della stessa cosa, pur con mezzi diversi. Mi fece vedere come lavorano i compositori, rivelando un’erudizione che mischia high e low con risultati decisamente eccitanti. Intuii che la musica, intesa come la intende Andrea, avrebbe gentilmente scalfito il purismo in cui mi ero rinchiusa per ragioni ben precise nel contesto delle arti visive.

Andrea Veltroni, dunque, mi propose di fare delle musiche per “Belfagor” e mi vennero in mente le due ore e mezza di video con tanto di materiali sonori provenienti dalla bottega nella quale fu realizzata la statua, che è quella dove si svolge la mostra: motosega, scalpelli, trapani e rondini che non fanno una primavera. Lo avevamo realizzato senza mai immaginare l’uso che ne avrebbe potuto fare un musicista. Pensavo a quello che si vedeva – uno scalpellino che segue le mie istruzioni per scolpire una statua – e non a quello che si sentiva. Con mano sicura e leggera Andrea trasformò i suoni in uno spazio sonoro potente che suscitò in me l’entusiasmo dei bambini.

La musica che – contrariamente alla scultura, ma forse solo apparentemente - non è palpabile ma esiste, mi indicherà come avvicinarmi alla mia prossima opera. Il cambio di prospettiva, tutto sommato, è tutto in arte.

Phoebe Lesch